Fu in uno di questi giorni come tanti che il sentirsi estraneo alla realtà lo fecero abdicare, si sentii disarmato e volle concedersi un pomeriggio di svago con sua figlia. Chiese un permesso di 3 ore e la andò a prendere a casa. Sua moglie fu ben felice di avere più tempo da dedicare a sè quel pomeriggio e affidò senza riserve la piccola al marito.
Andarono al parco e la fece andare sull'altalena, sugli scivoli, sui cavallucci e sulla giostra, le comprò il gelato e le chiese cosa volesse fare da grande. Lei rispose timidamente "la ballerina" e il suo cuore di padre si sciolse come burro al sole prima di stringerla, baciarla e sollevarla in aria. Lei rideva era felice e saltava, sgambettava e piroettava imitando le ballerine con il tutù. Anche lì fu un attimo. L'euforia dei volteggi la fecero girare su se stessa come una piccola trottola e non si accorse nemmeno del calcio in pieno viso inferto dal ragazzo sull'altalena. Cadde a terra tramortita, non riusciva a piangere e teneva la bocca aperta, senza emettere suoni, con gli occhi spalancati a cercare nel vuoto una risposta, una spiegazione, prima di trovarla nello sguardo del padre chino su di lei che la rassicurava e le prendeva la testa tra le mani. Fu portata di corsa al pronto soccorso dove tra pianti e urla di paura le misero 16 punti tra la tempia e l'arcata sopracciliare. Fu una notte da incubo. Mentre aspettava che gli riconsegnassero la figlia, Giorgio ripercorse mentalmente tutte le sue vicissitudini ospedaliere. I suoi traumi erano lì intatti e l'anima aveva assunto la forma di quella sua gamba esile, appesa a un corpo senza più tensione muscolare.
Giorgio era a pezzi, sentiva il peso del suo destino incombere come una colpa, colpa che non gli fu sottratta dalla moglie che anzi lo ritenne il principale responsabile dell'accaduto. La negligenza pertanto fu usata come leva per alterare definitivamente gli equilibri familiari.
Da allora i rapporti peggiorarono. Al già sfiancante senso di prostrazione e fatalismo, si aggiunse la sfiducia dei suoi familiari più stretti. Non lo ritenevano abbastanza forte, non era lui il perno della famiglia, la figura salda su cui si poteva fare affidamento. Così lentamente ma inesorabilmente fu messo ai margini e raramente coinvolto e consultato su questioni importanti. Le scelte venivano prese altrove, da sua moglie o dai genitori di lei e lui si trovò a svolgere un ruolo appena da comprimario. Aveva un unico compito, provvedere economicamente alla famiglia.
La piccola Elena cresceva e nonostante l'adorazione per il papà, viveva secondo le regole e i tempi dettati dalla madre che, con poca tenerezza ed indulgenza, educava rigidamente la bambina.
Giorgio iniziò a bere quando era ancora pressoché astemio e aveva appena compiuto 42 anni. Si sbronzò uscendo la sera con i suoi amici per festeggiare il suo compleanno dopo aver assunto appena 3 bicchieri di vino rosso.
Fu riaccompagnato a casa alle 2 di notte da una sua collega, Serena, e la moglie Anna si insospettì non poco per tale situazione di cui però non colse fino in fondo la portata ed il sentore.
Da allora lui iniziò a ritardare il rientro a casa con sempre nuove scuse ma non per andare a letto con la collega Serena, con cui peraltro aveva intrecciato nelle pause di lavoro una liason dangerouse, ma per immergersi nell'amnios dell'alcool.
Frequentava indistintamente baretti da quattro soldi così come enoteche, dicendo a se stesso che era solo un modo per rilassarsi e distendere i nervi dopo una giornata logorante a base di disperazione mista.
Fu però solo in una notte di luglio che tutti i nodi vennero al pettine. Era passata mezzanotte ed era sbronzo fino al midollo, barcollante ma ancora con residui di coscienza, temendo le furie di sua moglie Anna, non prese la strada di casa ma si parcheggiò nell'ufficio tra le scartoffie.
La mattina si svegliò lì col capo riverso sulla scrivania incapace di connettere e ricordare. Provò a sciacquarsi con l'acqua gelata, a prendersi a schiaffi ma fu tutto inutile. I colleghi lo guardarono girare su se stesso 2 o 3 volte prima di cadere a terra e addormentarsi. Fu l'oblio ma anche l'inizio della fine. Ad un operatore di un help desk non poteva essere consentito di tenere comportamenti riprovevoli che inducessero il cattivo esempio su utenti già afflitti da precarietà e sconforto. Fu richiamato formalmente due volte prima di ricevere in mano la lettera di licenziamento.
Con quella lettera stretta in pugno e lo sguardo perso nel vuoto come quello di sua figlia Elena dopo il calcio preso dal bambino sull'altalena, si confessò alla moglie nel buio della camera da letto. Erano le 23,30 quando ruppe il silenzio.
"Sono stato licenziato. In ufficio hanno scoperto il mio problema di dipendenza dall'alcool. Perciò da assistente sociale mi hanno declassato ad utente dello sportello. Non ho scuse, non ho alibi, ho solo disperazione. La stessa che ha attraversato i miei giorni durante i miei 6 anni di lavoro allo sportello."
Anna non ebbe esitazioni. Gli chiese di allontanarsi da casa per il bene della figlia Elena. Lui non battè ciglio. Chiese solo di poter dormire qualche ora prima di prepararsi ad andare fuori di casa.
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