DELHI ON MY MIND
Delhi mi
accoglie all'alba di un giorno di dicembre. Sono qui per lavoro, ma il lavoro
non è una gabbia. Ovunque porti con me gli occhi, il gusto della scoperta e la
capacità di stupore, faccio tesoro di questi miei doni. Il resto è sentire,
osservare, fotografare. Parafrasando una massima zen, lascio che siano gli
altri decidere cosa io stia facendo: se lavorare o giocare, sognare o vivere.
In fondo mi sento sempre un po' in viaggio, perché la vita lo è.
Viaggiare è una
continua scoperta, di sé e dell’altrove in sè. E non c'è più altrove
dell'India. Già il primo impatto evoca atmosfere mistiche, odori di incenso,
suoni di sitar, tintinnii di bracciali, antiche leggende. Affiorano dalla
memoria i versi di Tagore "Questa mattina ascolta come il cielo, l'aria,
la luce per te cantano a gran voce. Apri tutte le porte, o animo, e spegni le
luci della notte".
Il suo canto
ispirato guida il mio sguardo e mi invita a cogliere la grandezza nelle piccole
cose. Intanto il taxi mi porta nel lussuoso hotel fuori del quale la vita
inizia a pulsare. Una vacca smunta attraversa la strada, un bambino gioca con
una ruota di gomma mentre un uomo accende la motoretta accanto ad una baracca
di lamiera. Dentro l'hotel uomini d'affari, solerti concierge, tavole
imbandite. Sono in uno dei tanti atolli in questo oceano umano che è l'India,
dove il lusso dorme accanto allo squallore come qualcosa di diverso eppure
uguale. Sono in una enclave, lontana dai rumori, dallo smog, dalla frenesia e
dal torpore della città. Abbandono presto quest'atollo distante e mi lascio
andare al flusso. Prendo un tuk tuk. Dopo poco l'atollo è già un ricordo e sono
immersa in un traffico delirante e surreale. Siedo spettatrice dinnanzi allo
spettacolo dei clacson, dei bambini in divisa che vanno a scuola, dei motorini
su cui viaggiano intere famiglie, dei bus stracolmi. Anche il caos ha il suo
fascino se lo si osserva con distacco. E io non ho fretta: prima tappa il Red
Fort. Il colore rosso delle mura mi riporta alla mente la terra di Marrakech
stagliata su cieli blu cobalto. Fotografo la gente, i sorrisi, le donne con i
sari. Tutto convive in una sinestesia di colori, sapori, rumori, angoli
decadenti e sublime bellezza di architetture fiabesche.
Giungo a Old
Delhi che visito su un piccolo carretto trainato da un uomo. E lì il mio
sguardo si perde nel labirinto di vicoli tra bazar, edifici fatiscenti, grovigli
di cavi della luce, tra artigiani, mercanti, avventori di bar. È un caos
vitale, un altrove ad un passo eppure distante nel suo anacronismo. È un tempo
altro che non si fa datare. Mi concedo una pausa prima di visitare la moschea
di Fatehpuri Masjid. Dopo un tè caldo riprendo il cammino. E mi immergo nella
zona più istituzionale della città con le ambasciate, il parlamento, il palazzo
presidenziale, l'Indian Gate. Le parole di Gandhi mi accarezzano i pensieri
come un refolo "Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo".
S’è fatta
sera. L'ombra mi avvolge. Cerco un ristorante dignitoso e pulito per
ritemprarmi. Da domani sarò in fiera, ma ogni sera tornerò ad appartenere a
questa città a perdermi nel suo caos e nelle sue contraddizioni. E nel weekend infine
mi attende il viaggio in direzione del Rajasthan: Agra, il Taj Mahal, Fatehpur
Sikri e Jaipur le mie mete. Torno nel mio albergo-atollo. Mi sento pregna come
un frutto maturo, ricca del mio sentire. Benedico gli occhi per ciò che mi
fanno vedere e l'immaginazione che mi fa andare oltre ciò che vedo. Mi
addormento. Sogno edifici rosa, un mausoleo bianco, un palazzo nell’acqua come il
miraggio di un naufrago. E poi ascolto col pensiero il canto lieve delle parole
di Tagore "La vita non è che la continua meraviglia di esistere".
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